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KILL BILL VOL.2

RECENSIONE DELL'ARTISTA GABRIELE PAOLINI.






Kill Bill Vol. 2


Arrivati al secondo episodio, si può dare finalmente un giudizio definitivo sull’ultima opera di Quentin Tarantino. Il responso, purtroppo, è grave: il malato è in fin di vita e, cosa ancora peggiore, i medici continuano a dirgli che ha una salute di ferro. Fin dal primo capitolo, era abbastanza chiaro che il regista era troppo innamorato dei suoi attori e del materiale girato per fare una semplice e fondamentale cosa: montare la pellicola. Già ad ottobre l’impressione era di un film potenzialmente molto interessante, ma annacquato da tanta roba inutile.

Se lì i problemi emergevano in superficie a tratti, in questo caso l’iceberg affiora per tutta la durata del film, facendo affondare la barchetta messa in acqua da Tarantino e dal boss della Miramax Harvey Weinstein. Se, insomma, il primo episodio sarebbe stato di gran lunga superiore con una mezz’ora di lungaggini tagliate, qui si fa prima a dire cosa dovrebbe rimanere. In definitiva, perché fare un film di quattro ore totali (compresi i lunghissimi e superflui titoli di coda), quando c’è materiale valido per massimo due ore di pellicola?

Difficile esprimere il senso di vuoto del film, che peraltro viene mascherato con il solito decostruzionismo tarantiano, fatto di flashback e flashforward che danno l’impressione di vedere qualcosa di profondo (non molto diversamente da quanto fatto da Alejandro González Iñárritu, anche se con attori di ben altro livello e con più carne al fuoco, con il sopravvalutato 21 grammi), ma che in realtà servono soltanto per dare un po’ di colore ad un cadavere (almeno ci si poteva rivolgere ai professionisti di Six Feet Under, no?).

Inutile dire che la critica americana e italiana sta già sbavando per Kill Bill Vol.2, spesso superando l’entusiasmo già mostrato per il primo capitolo. Non è difficile capire la motivazione. Sia per le giovani leve che per molti giornalisti di lunga esperienza (eufemismo per designare chi ha superato l’età della pensione da un pezzo), è un piacere vedere un film con pochissima azione e in cui i personaggi parlano in camera e descrivono minuziosamente i loro sentimenti e le loro azioni, come se fossimo in un romanzo. Peccato che questa è l’antitesi dell’opera cinematografica, che dovrebbe mostrare e non raccontare. E non si facciano paragoni con Pulp Fiction. Lì i dialoghi lunghissimi erano esilaranti e intelligenti, qui sono solo barbosi e ripetitivi (e a chi vi romperà citandovi il monologo su Superman, rispondete che Umberto Eco in Apocalittici e Integrati negli anni sessanta scriveva cose ben più intelligenti sul personaggio).

In effetti, è difficile capire l’entusiasmo per dei personaggi così stupidi e banali. Se l’idea era quella di mostrare il Viper Squad (il gruppo di assassini di cui faceva parte anche la Sposa, di cui peraltro viene finalmente rivelato il vero nome, anche se la cosa non ha nessun significato, a differenza di quello che si poteva pensare) come il massimo del cool, l’operazione è decisamente fallita. D’altronde, se i vari protagonisti si fanno ammazzare stupidamente come dilettanti e lasciano sopravvivere Uma Thurman (che peraltro sembra avere poteri rigeneranti incredibili, degni di Wolverine degli X-Men) anche quando potrebbero facilmente eliminarla, è difficile prendere la cosa sul serio. E considerando che stiamo parlando di una storia di vendetta, non si può trasformare la vicenda in un gioco, in cui la trama va avanti con decine di incongruenze e banalità, come se tutto fosse già scritto (basti vedere come si scopre la residenza di Bill).

E anche l’amarezza e la difficoltà di vivere di alcuni personaggi (in particolare il Budd interpretato da Michael Madsen), che ne fanno dei perdenti ai margini della società, non raggiunge minimamente la profondità di certi personaggi crepuscolari peckinpahiani. Per non parlare del personaggio della figlia della Sposa, che andrà studiato nei corsi di sceneggiatura come uno dei più improbabili e peggio scritti della storia del cinema. E che dimostra che il Tarantino delle Iene, in grado di costruire protagonisti complessi e profondi, è ormai morto da tempo, capace soltanto di mostrare persone che si puntano armi a vicenda e parlano all’infinito.

Al suo posto, abbiamo un presuntuoso e arrogante ex enfant prodige incapace di crescere, che tra le altre cose ha anche pensato seriamente di interpretare il maestro di arti marziali che vediamo nella pellicola. Un regista incapace di sorprendere e che viene ancora salutato come un innovatore dalla critica. “Quentin is dead, baby. Quentin is dead…”









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Pubblicato su: 2004-04-21 (9335 letture)

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